Massimo Marino, doppiozero
Era bella anche da vecchia, bellissima da giovane, la Rita Hayworth italiana la chiamavano, nella Milano che veniva su palazzone dopo palazzone, tra ruspe e sogni di un’aria che odorava già di miracolo economico, raccontata a mille all’ora e gag surreali nello Svitato, film di Lizzani con un Dario Fo giovanissimo, magrissimo, spiritato, e con lei, bella, bellissima, Pinocchio e una fatalissima fatina dai biondissimi capelli, Franca Rame.
L’attrice fascinosa e alla mano sarebbe stata definita in molti altri modi. Avrebbe cambiato negli anni molte pelli, fino a oggi, senza rinnegare niente, tenendo insieme tutto, il presente e il passato, in cerca continuamente, furiosamente ma con metodo, di un futuro migliore.
Donna impegnata, senatrice, passionaria politica, attrice, soubrettona, figlia d’arte. Ripercorrendo a ritroso il cammino di Franca Rame, venuta a mancare stamattina a Milano a 84 anni, incontriamo tutte queste definizioni. Lei era nata ai bordi del palcoscenico da una famiglia di comici girovaghi, i Rame, ricordati fin dal Seicento, passati dal teatro di figura a quello d’attori per battere la concorrenza del cinema. Aveva debuttato in fasce a otto giorni in braccio alla madre in un drammone ottocentesco, Genoveffa del Brabante. Aveva lasciato poi il teatro girovago per studiare: avrebbe voluto fare l’infermiera (la vocazione al servizio le era connaturata), ma era tornata ai lustrini della rivista, con ottimo successo. E là aveva conosciuto Dario, il picchiatello, il disegnatore-scrittore-attore: con lui aveva fondato una compagnia che furoreggiava nei teatri di Milano e di tutta Italia con spettacoli divertenti e surreali, immersi negli anni del boom con corrosivo umorismo, e poi lo aveva seguito per altre strade, lasciando i velluti per gli arredi dimessi dei circoli Arci, nella stagione della contestazione sessantottesca, e poi nei cinema, nei garage, nei palasport dei circoli La Comune, teatro di denuncia politica e cori a pugni chiusi, appelli per i compagni arrestati e discussioni di ore e ore. Franca Rame, compagna di arte e di vita (non senza qualche trambusto, anche drammatico) di Dario Fo, è stata un’artista fortemente impegnata politicamente, prima nei movimenti della sinistra extraparlamentare negli anni ’70, poi per l’emancipazione delle donne.
L’Accademia svedese, nel conferire a Fo il premio Nobel per la letteratura, scriveva nelle motivazioni: “A Dario Fo perché, insieme a Franca Rame, attrice e scrittrice, nella tradizione dei giullari medievali dileggia il potere e restituisce dignità agli oppressi”. E la sua vita è sempre stata così: divisa col marito, che spesso ne ha offuscati i meriti. Se lui nella coppia d’arte mise l’estro, l’inventiva, una corda pazza, lei sicuramente diede il ritmo stringente, perfetto, implacabile, teatrale, maturato in quel carrozzone di famiglia dove i copioni non si imparavano leggendoli, ma sentendoli ripetere dalla mamma e dagli altri parenti dieci, cento volte.
Da giovane, quando iniziò a camminare con le proprie gambe, nelle riviste, era definita “soubrettona” (la soubrette dirompente fisicamente, “bonona” la chiamavano allora). La disciplina della famiglia d’arte e quella della dura vita di compagnia formarono un tratto importante della sua personalità. Era soprattutto una donna capace di imporre ordine al geniale marito: coautrice dei testi, li revisionava, curava la compagnia, l’organizzazione, quel miracolo che portò un comico in fuga dal teatro borghese, alla fine degli anni sessanta, a costruire un circuito alternativo nel quale si andava per ridere ma soprattutto per sentire il verbo del cambiamento, partecipare almeno in spirito alla dialettica di una rivoluzione che si credeva vicina. Anima dei circoli La Comune, che tesserarono migliaia di persone, si dedicò anima e corpo al Soccorso Rosso, per l’assistenza dei detenuti politici, contro i soprusi delle carceri e dei manicomi. Passionaria, erano famose le collette che lanciava alla fine degli spettacoli, subito prima del dibattito, con voce che non ammetteva repliche, con slancio convincente. Perorava, con la stessa irruenza fisica che aveva dedicato ai suoi personaggi, come quella magliaia di Carpi che aveva trasformato la sua casa in una fabbrichetta piena di telai, e con le gambe muoveva le macchine, con una mano girava il ragù, con l’altra cullava il figlio e faceva qualcosa anche con la bocca. Era Ordine per DIO.000.000.000, una denuncia del lavoro a domicilio, e costituiva una delle variazioni di uno dei suoi numeri più virtuosistici, quello di condensare decine di gesti meccanici in una partitura di pochi minuti, reiterata, fino a far esplodere lo sghignazzo e l’inquietudine nello spettatore.
Ci era arriva con la sapienza scenica ereditata e coltivata, applicata a personaggi basati sui contrasti, belle piene d’anima spesso racchiuse in panni goffi, in caratteri ingenui, capaci di smascherare le magagne di un mondo di pescecani, come l’Enea di Settimo ruba un po’ meno. La bellezza l’aveva messa, anche quella, come l’intelligenza, al servizio della causa. Passò dalle farse, ricostruite dal marito sui canovacci della famiglia Rame, a raccontare il lato femminile di tragedie come quella di Pinelli (Morte accidentale di un anarchico defenestrato), storie di sfruttamento e abuso. E molto narrò di donne con Dario e poi in spettacoli (e in trasmissioni televisive) in cui affrontò da sola la scena. Ricordiamo Parliamo di donne, in tv, una denuncia della subordinazione femminile in questa società, con la capacità di svariare dal tono serio a quello comico e paradossale. In teatro dobbiamo mettere, sulle due polarità, Io… Ulrike, grido…, sulla morte in carcere della terrorista della Rote Armee Fraktion per “suicidio”, un crescendo di dolore in una cella perennemente illuminata a giorno per torturare la donna reproba, la ribelle, e Tutta letto, casa e chiesa, vari personaggi, varie donne, un polittico sulla condizione femminile oggi, il primo testo di cui compare come coautrice (1977).
Ma sicuramente il suo spettacolo più difficile, più doloroso, fu Lo stupro del 1975, in cui raccontava una storia di rapimento e violenza sessuale, una tragedia condivisa nel mondo da moltissime donne. Violento apologo, che nel 1987 rivelò non basarsi su racconti e testimonianze di altre (c’erano anche quelle, perché il caso assume una risonanza collettiva), ma su un’esperienza subita in prima persona, nel 1973, attaccata, violentata per il suo impegno politico, umiliata, ridotta a cosa. L’attrice aveva trasformato una ferita insanabile della vita in esperienza da condividere, in domanda lancinante, in forza per ricominciare specchiandosi negli occhi di tante altre vittime.
Lunghissimo è l’elenco degli spettacoli di questa attrice che, come il marito, indulgeva spesso alla predica, per convinzione profonda. Instancabile nella denuncia sul palcoscenico e nell’impegno quotidiano, per gli ammalati di Aids e per molte persone svantaggiate. Sempre con quello sfavillio personale capace di affascinare, da attrice vecchio stampo, con la voce pastosa, avviluppante come velluto, invischiante come palude, martellante i ritmi di un’inesausta passione, pronta a raccontare di matricide Medee, di Madonne addolorate, di serve possedute da demoni tentatori nel Diavolo con le zinne rivelando un mondo di potenti corrotti; a raccontare di tossicodipendenza in L’eroina, a mettere in scena con comicità come sempre paradossale anche l’infelicità coniugale, un marito che abbandona la moglie attratto da ragazze giovani, in Grasso è bello. Per quell’abbandono, reale, tentò anche il suicidio. Ma il teatro, recitato col marito, fu sempre il suo balsamo, e l’attività organizzativa, della compagnia, del sito, la cura della pubblicazione delle opere…
L’ho vista l’ultima volta un paio di anni fa nel sempreverde Mistero Buffo. Scrivevo, dopo lo spettacolo, che il nostro teatro, in crisi economica, strutturale, ma anche inventiva, si salvava in corner con i suoi patriarchi. Da qualche anno Dario Fo l’aveva associata al famoso spettacolo. Lei narrava la nascita di Eva, più impacciata del solito, disturbata dalla tosse. Dopo il celebre brano della vestizione di Bonifacio VIII, che governa la chiesa e il mondo cantando un alleluia mentre vanitosamente cura la propria immagine, toccava a Franca chiudere la serata. Interpretava un pianto trecentesco della Madonna sul figlio in croce, un po’ rallentata, parecchio appannata rispetto all’attrice tutta verve, controtempi, battute brucianti, sguardi infuocati, e alla militante che strappava l’entusiasmo delle assemblee e costringeva poveri studenti a mettere con entusiasmo le mani nei loro magri portafogli. Non si sprecava più, appesantita dagli anni, come si risparmiava il famoso marito, che comunque continuava a recitare nonostante un ictus. Eppure il pubblico alla fine applaudiva entusiasta, irrefrenabile, proiettandosi, come il Paese molte volte, tra la nostalgia di tempi più esaltanti e la fiducia in anziani, sicuri patriarchi.
Franca Rame fu anche senatrice della Repubblica con l’Italia dei Valori. Per soli due anni dal 2006 al 2008. La politica del Parlamento, con i suoi indugi, i suoi compromessi, non faceva per lei. Sul suo blog il primo post che appare oggi è un’interrogazione del 2007. Anche solo il titolo rivela come questa donna, questa attrice, sguardo lungo, anima grande, sapesse intercettare la realtà e i suoi pericoli molto prima di altri: Interrogazione su Taranto, bambini con la sindrome del fumatore incallito a causa della diossina (11/10/2007).