Marco Belpoliti Stefano Chiodi
Comprensibile, forse, dato che non capita tutti i giorni di parlare con l’autore di Shoah, il film di oltre dieci ore in cui il regista e intellettuale francese fa parlare i sopravissuti della deportazione e dello sterminio degli ebrei europei. In questi giorni non c’è giornale, TV o radio che non l’abbia sentito, che non abbia raccolto la sua voce e le sue dichiarazioni.
Il suo nuovo film, L’ultimo degli ingiusti, è uscito a novembre in Francia e ora anche in Italia. Un film a suo modo scandaloso. A distanza di trent’anni dal suo capolavoro Lanzmann fa parlare uno dei personaggi più discussi della terribile stagione che sconvolse il Vecchio continente: Benjamin Murmelstein, il capo del Consiglio ebraico di Theresienstadt, a meno di 100 chilometri da Praga, il ghetto modello costruito dai nazisti per mostrare al mondo come venivano trattati gli ebrei deportati. Il rabbino Murmelstein è l’unico Decano dei ghetti costruiti dai nazisti a essere sopravissuto. Prima ancora era stato un personaggio significativo nella gestione degli ebrei austriaci, in stretto rapporto con il Zentralstelle, l’Ufficio centrale per l’emigrazione degli ebrei, ovvero la struttura che compilava le “liste di trasferimento per reinsediamento” nei territori del Reich. Il suo nome compare nel libro di Raul Hilberg, La distruzione degli Ebrei d’Europa (Einaudi), là dove si parla della prima fase del trasferimento forzato degli ebrei austriaci; mentre è del tutto assente nelle prime opere pubblicate sul tema dello sterminio, il libro di Léon Poliakov, Il nazismo e lo sterminio degli ebrei, uscito nel 1951 e quello di Gerald Reitlinger, La soluzione finale, del 1953.
La discussione intorno alla figura di Murmelstein è stata subito molto forte al termine della guerra, tanto che il rabbino, interlocutore di Eichmann, è rimasto in esilio a Roma sino alla morte, nel 1989, senza potersi recare in Israele. Lo studioso di Kabbala Gershom Scholem, amico di Walter Benjamin, avrebbe detto che Murmelstein andava impiccato. Come emerge dal film di Lanzmann, si tratta di un personaggio straordinario. È come se il regista francese avesse trovato il suo Faust, l’uomo che lo accompagna per incontrare il Male. Forse più ancora dei sopravissuti dei Lager, perché Murmelstein con il Male è sceso a patti.
Guardando le immagini del film si è colpiti dalla forza della sua voce. Murmelstein, che Lanzmann incontra a Roma nel 1975, tra i primi sopravissuti intervistati per Shoah – ma nel film uscito del 1985 non ci sarà –, è un uomo massiccio, dal collo grosso, indossa un paio di occhiali da sole e ha un curioso riporto dei capelli sulla testa. Più che Faust è Ulisse: uomo astuto, ambivalente, a suo modo geniale, che non si sottrae a nessun confronto, a nessuna domanda. Ha una risposta per tutto. Eppure porta con sé un inconfondibile senso di morte: è sceso all’inferno, come dice lui stesso, non si è voltato indietro, non ha fatto come Orfeo che ha lasciato laggiù Euridice. Si paragona a Sancho Panza, uomo dall’ingegno pratico, che ricorda ai suoi padroni tedeschi le ragioni dell’immediatezza; racconta storie, dice di essere stato con le SS come Sheherazade, che cercava di rinviare la morte con il racconto. Ripercorre vicende del passato. Un ancora giovane Lanzmann gli siede accanto; lo interroga. Lo ascolta soprattutto, affascinato.
Murmelstein sa che la sua esistenza, come quella di Ulisse, è dominata dalla morte, la reca con sé. Quando viene portato a Theresienstadt è perché a Vienna il suo lavoro è concluso, restano, dice Hilberg solo 8000 ebrei nella città. È trasferito nel Lager modello perché è un uomo importante. Ha spiegato a Eichmann la storia della migrazione ebraica, ha trattato con lui. Arriva nel ghetto e ben presto ne diventa il vice presidente, il vice di Paul Eppstein, il Capo del Consiglio ebraico, il decano che presto finirà ucciso dai tedeschi con un colpo alla testa. Tocca a lui dirigere il ghetto.
"Dopo Shoa", il nuovo film di Claude Lanzmann
Nel film Lanzmann racconta tutto questo con dovizia di particolari; il lungometraggio, tre ore e mezza, è costruito intorno alla vecchia intervista al rabbino viennese, cui si aggiungono sopralluoghi a Praga, Vienna, Theresienstadt. Giocato su due piani temporali, 1975 e 2012, il film è quasi l’opposto dell’epico e insieme tragico Shoah. Ne rappresenta in una certa misura il rovesciamento. Murmelstein era allora un reietto. Alla sua morte non venne sepolto nella terra del cimitero ebraico.
Intervenne il rabbino di Roma a impedirlo, e anche in seguito il figlio ne ha chiesto la riabilitazione post mortem. Tra i sopravissuti di Theresienstadt c’è chi si è opposto. Resta discusso ancora oggi. Ma Lanzmann ha preso le sue parti. Il film lo racconta in modo asciutto, deciso. Forse è cambiata la sua – la nostra – idea di memoria. Di certo sono cambiati i tempi. Se allora Murmelstein era da impiccare – ma aveva superato la carcerazione e il processo in Cecoslovacchia, dopo il 1945 – Lanzmann ci propone oggi una figura sulla quale riflettere. Ha preso le sue parti. Nel 1985 non poteva farlo, ora sì.
Mentre aspettiamo che la troupe di Sky finisca il suo lavoro, discutiamo tra noi di questo. Abbiamo due opinioni diverse riguardo il capo del Consiglio ebraico di Theresienstadt, ma su una cosa concordiamo, si tratta di una testimonianza importante. Ci fanno entrare, dispongono tre sedie. Lanzmann è visibilmente stanco. Capelli bianchi, corpulento, è elegante con la sciarpa al collo e la giacca grigia. Gli occhi azzurri, profondi. Quando ti fissa sono penetranti. Si fa portare un bicchiere di whisky. Stringerà per il corso della nostra conversazione – sono venti minuti o poco più interrotti dalla direttrice del teatro dove si svolge, che lo reclama in sala per la proiezione del film – quel bicchiere, sorseggiando pian piano il suo whisky, quasi fosse una bibita.
Parla un francese forbito, d’altri tempi. Il direttore di “Les Temps Modernes” ha ottanta anni, ma non ha perso nulla della sua verve. Adesso, nonostante la stanchezza, sembra più combattivo del Lanzmann che compare nel film. Molto meno intrattabile di come ce lo avevano descritto gli amici parigini. Si vede che nonostante le tante interviste ha ancora voglia di parlare. Forse è per ciò che gli chiediamo. Abbiamo molti interrogativi da sottoporgli, abbiamo preparato dieci e più domande. Riusciamo a formularne appena tre o quattro. Alla fine ci interrompono e lo portano via, verso la grande sala. Quello che segue è la trascrizione del colloquio.
Lei ha dichiarato di aver fatto tra le prime interviste per Shoah proprio quella con Murmelstein. Perché è andato a cercare proprio lui? Cosa si proponeva raccogliendo la sua testimonianza?
Qualcosa mi disturbava nell’idea di ebreo collaborazionista, non riuscivo a crederci. Ci sono stati collaborazionisti in Francia, in Belgio in Olanda, ovunque dominavano i nazisti, ma erano persone che condividevano l’ideologia nazista, erano loro stessi antisemiti. I membri dei Consigli Ebraici non erano certo di questo tipo; era piuttosto gente obbligata con una pistola alla nuca. Non avevano scelta ed erano vittime di terribili contraddizioni; molti di loro si sono suicidati ed erano tutti morti al tempo, tranne Murmelstein. Questa è una delle ragioni per cui ho voluto incontrarlo: era il solo sopravissuto tra i membri dei Consigli Ebraici, uno dei Presidenti. Penso di aver avuto ragione, perché in nessun caso si è meritato l’epiteto di collaborazionista. Ha permesso a 123.000 ebrei di Vienna di abbandonare la città, si è battuto giorno dopo giorno perché queste persone potessero fuggire, ha mantenuto in piedi Theresienstadt fino alla fine, mentre tutti gli altri ghetti, come Lodz, sono stati distrutti durante l’estate del 1944. Si è molto battuto. È riuscito a far passare persone attraverso la Francia occupata fino in Spagna e in Portogallo; è riuscito a inviare un convoglio perfino negli Stati Uniti, lui stesso sarebbe potuto partire, non era incluso nelle quote in quando professore universitario e rabbino. Pensava di avere una missione da compiere, e secondo me l’ha compiuta. Chi lo ha accusato, l’ha fatto per ragioni sbagliate. Aveva un carattere duro, duro e impietoso, innanzi tutto con se stesso, aveva stabilito delle regole e le rispettava. Ha avuto due predecessori a Theresienstadt, Jakob Edelstein di Praga e Paul Eppstein di Berlino, entrambi uccisi. Loro due non sapevano dire di no.
I nazisti tenevano all’esattezza delle cifre. Quando chiedevano un convoglio di 5.000 persone, bisognava fossero esattamente 5.000, non 4.999 o 5.001. Volevano le cifre esatte, ma non gli importava nulla di chi partiva, non era il loro problema. Erano i membri dei Consigli ebraici che decidevano chi doveva partire. E questo fatto ovviamente creava tutta una serie di mercanteggiamenti o corruzione vera e propria. Una volta avuto abbastanza potere da poter imporre le proprie regole, Murmelstein ha detto ai nazisti: Voi potete ucciderci, ma non vi daremo i nomi. Volete 5.000 persone? Prendetele e sceglietele da soli. E furono i nazisti a fare le liste da quel momento in poi. La gente lo andava a trovare per essere tolta dalla lista, ma lui aveva stabilito la regola che i membri del Consiglio ebraico non dessero i nomi ai nazisti. Volete togliere questa persona dalla lista?, diceva Murmelstein, Va bene, ma prendete voi il loro posto. Mi ha detto: Nessuno ha spinto la propria generosità sino a questo punto. Isaac Bashevis Singer ha scritto che gli uomini e le donne del ghetto erano dei santi; non c’è bugia più grande, dice Murmelstein: non erano santi, erano martiri, ed essere un martire non significa essere necessariamente un santo.
Era la prima volta che Murmelstein raccontava la sua versione a qualcuno?
Non aveva mai parlato a nessuno. Per un’intera settimana l’ho ascoltato ogni giorno, mattino, pomeriggio e sera. È stato difficile, ma ha capito che poteva parlarmi. Ero molto ammirato dalla sua intelligenza, dalla grande acutezza, dal suo sapere enciclopedico, dal suo coraggio. Ci sono dei momenti straordinari nel suo racconto.
Senz’altro lei conosce l’idea di Primo Levi di “zona grigia”. In quale punto di grigio lei situerebbe Murmelstein?
Naturalmente conosco molto bene la nozione di “zona grigia” di Levi, ma farei un passo ancora più in avanti. Io sostengo che nessuno è stato ad Auschwitz, nessuno. E le dico anche perché. Ad Auschwitz c’erano due campi: un campo di sterminio e un campo di concentramento. E questo lo si vede molto bene in Shoah. Prendete le fotografie scattate dai tedeschi, ad esempio all’arrivo degli ebrei ungheresi nell’estate del 1944, donne, uomini, vecchi, bambini, pieni di dubbi, angosce, sospetti, che presentivano che qualcosa di inumano sarebbe accaduto, ma non riuscivano a crederci. Era spaventoso. Due ore dopo erano chiusi nelle grandi camere a gas che erano capaci di uccidere 3.000 persone alla volta. Queste persone non hanno mai saputo di essere ad Auschwitz. Non sanno dove sono morti: non hanno la conoscenza della propria morte. Immobili nell’oscurità, stretti gli uni agli altri, i padri che schiacciavano la testa dei figli per respirare, perché il Zyklon B saliva dal basso. Al contrario quelli che erano stati scelti per vivere, per rimpiazzare i morti nel campo di concentramento, dove le condizioni di vita erano durissime, non hanno conosciuto le camere a gas. E che cos’è dunque Auschwitz, le camere a gas o il campo di concentramento…? Quando dico questo le persone hanno difficoltà a capire, e tuttavia è la verità. E la zona grigia… Primo Levi stesso dice di non essere mai entrato in una camera a gas, non può testimoniare questo.
Non c’era la camera a gas a Monowitz, il campo di lavoro e di concentramento dove si trovava, e certamente Levi non parla di camere a gas…
Posso farvi una domanda? Primo Levi ha visto Shoah? Io dico che l’ha visto, so questo perché sono in contatto con qualcuno cui Levi l’ha scritto, Anthony Rudolf. Levi ha visto Shoah e penso sia stato molto importante per lui, forse c’è un legame tra il suo suicidio e il film. Questo è ciò che penso. Per questo ha parlato dopo della zona grigia. E ne ha parlato certamente meglio di Agamben, che ha scritto delle tremende sciocchezze.
Ci ha molto colpito il gesto che lei fa alla fine del film, quando di fronte all’Arco di Tito, passa il braccio sulle spalle di Murmelstein. Perché quel gesto?
Era un gesto fraterno. Perché in generale sono profondamente convinto della sua sincerità. Non mi ha mentito. Ha detto delle cose sconvolgenti, quando per esempio gli ho chiesto perché non è emigrato, e risponde raccontando la storia del vecchio rabbino Teglish, che Murmelstein accompagna a Londra, a far visita al rabbino capo d’Inghilterra, pensando che gli avrebbe fatto piacere triburargli un koved, un gesto di onore, e il rabbino capo d’Inghilterra gli risponde che avrebbe fatto il koved non per chi arrivava ma per chi tornava indietro, cioè per Murdelstein stesso. E durante tutta l’intervista Murdelstein non smette mai di dire cose molto profonde e naturalmente di mostrare anche le tremende contraddizioni nelle quali era stretto.
Perché ha aggiunto paesaggi e storie di oggi all’intervista con Murmelstein?
In questo film ci sono tre personaggi e tre età della mia vita. Un primo personaggio che si chiama Murmelstein, un secondo personaggio che si chiama Claude Lanzmann, e un terzo che si chiama anche lui Claude Lanzmann, ovviamente il secondo personaggio è il Lanzmann di quarant’anni, e il terzo ha la mia età di adesso. Era molto importante tornare nei luoghi di Murmelstein, oggi.