Se penso a Lea Vergine, penso alla bellezza. Non tanto e non solo perché era una bella donna, e questo anche nella vecchiaia, ma perché la bellezza costituisce la quintessenza di Lea. Una bellezza difficile, come lei. Ci sono due aneddoti che la definiscono nel rapporto con la bellezza del corpo, prima ancora che con la bellezza dell’arte, raccontati più volte da lei stessa agli amici. Il primo risale agli anni Sessanta, quando Lea viveva a Napoli. Tiene una conferenza all’Accademia di Belle Arti di Napoli; si siede dietro un tavolo e sotto le si vedono le gambe. Un giornalista chiamato a parlare dell’incontro su “L’Unità” cita quelle gambe: la gente è venuta per vederle, scrive, non per ascoltare la giovane critica d’arte. Lea gli fa causa e lo porta in tribunale. Il giudice le guarda le gambe e conclude che il giornalista ha torto: mica sono gambe speciali, sentenzia. La conferenziera ci guadagna trecentomila lire. L’altra riguarda una mostra di Lucio Fontana, la prima, credo, che si faccia a Napoli, di cui lei a 26 anni scrive la presentazione. Lo scrittore Luigi Compagnone s’indigna leggendola perché Lea ha parlato di buchi: rivela una perversione sessuale, sentenzia. E Lei gli intenta un’azione legale. Mentre raccontava uno di questi aneddoti, o entrambi, Lea aspirava con voluttà la sigaretta che si era accesa nel frattempo, poi emetteva il fumo e diceva: “Cosa vuole che le dica? Ero molto giovane allora”.
Non rideva, ma stigmatizzava, ed era come se ridesse, di sé stessa e degli altri. La bellezza difficile è, prima di tutto, quella della città dove era nata nel 1938, Napoli, città d’estenuante bellezza, che lì anche la bruttezza ne partecipa. Insieme alla bellezza c’è la spigolosità di Lea, sempre tranciante nei giudizi, senza mezzi termini o mezze parole. Un dire sempre puntuto, eppure anche affettuoso. Forse perché, come ha raccontato tante volte, la sua infanzia è stata quella di una bambina insieme aristocratica e plebea? Non lo so. Strappata dai nonni borghesi alla madre plebea, viveva affacciata sul medesimo pianerottolo della genitrice, ma confinata in un mondo a parte. Di là stavano i due fratelli, entrambi persi giovani per malattie improvvise. La morte ha che fare con la bellezza a Napoli, vive insieme alla bellezza; è quella di Eros, congiunta al suo opposto, o complementare, Thanatos. Ho conosciuto Lea tardi, solo venti anni fa, quando da ragazza, come era stata per lungo tempo, s’era trasformata in una signora cui piaceva invitare i nuovi amici insieme ai vecchi alla sua tavola, a pranzo, per parlare. Un modo di far salotto con piatti buonissimi, perché a Lea il cibo è sempre piaciuto.
Forse meno delle sigarette che fumava con voluttà: Nazionali senza filtro. Per quanto spigolosa e tranciante Lea è sempre stata acuta nei suoi giudizi, sempre condivisibili, perché dettati da un innato partito preso, e sempre sorretti da fulminanti battute o inattesi epiteti, che lasciavano a sorpresi. Una snob, diceva qualcuno. Meglio: una dandy, al femminile, perché la femminilità era un’altra sua dote, insieme all’eleganza. Il suo dandysmo è però quello degli eccentrici. Se penso a lei, alle cose che ha scritto e detto, penso infatti a una eccentrica. Una volta le ho chiesto, lei che aveva scritto un libro intitolato Gli ultimi eccentrici, chi fossero questi eccentrici, mi aveva risposto: “Dei falliti, e per esserlo bisogna essere disinteressati, distaccati, eleganti, saper fermare l’ironia prima che diventi sarcasmo”. Parlando del suo passato diceva: “Solo intorno ai trent’anni ho cominciato a capire i miei difetti”. Lea Vergine è una critica d’arte, si dice di lei di solito. Credo che la definizione giusta sia: una scrittrice.
Una di quelle autrici che manifestano una loro potenzialità nel cercare di andare al di là di se stesse. Nelle sue pagine si percepisce il gioco continuo che ingaggia con la forma, una gara senza sforzo e senza esibizione, per superare un punto invisibile che lei sente dietro le parole e a cui tende. Senza un metodo, ma con uno stile inequivocabile e diretto, Lea ha rinnovato profondamente la scrittura dell’arte contemporanea. Prima si è occupata dell’arte programmata e cinetica, seguendo i suoi maestri e mentori, Giulio Carlo Argan ed Eugenio Battisti, poi la body art, su cui ha scritto un libro fondamentale, Il corpo come linguaggio (1974). Nella prima si manifestano le istanze razionali di un linguaggio formale che la coinvolge e di sicuro la interessa, mentre nella seconda s’esprime l’altra faccia di Lea, quella che guarda alle forze irrazionali, che abitano i corpi e le istanze del desiderio.
Sempre in bilico tra due opposti, ha seguito da vicino la vicenda del Sessantotto spostandosi a vivere a Milano per amore di Enzo Mari. Aveva già trent’anni all’epoca, ricordava sempre, e questo le servì a tenere una distanza dalle cose, per quanto fu coinvolta a fondo dal cambio di paradigma sociale e politico di quel periodo. A testimonianza dalla sua dualità c’è la mostra Irrarte, alla Galleria Milano, che era l’evidenza d’un rapporto irrisolto e incompleto, persino conflittuale, tra arte e politica: un’apertura all’umano, l’ha definita una volta. Era così bella e fascinosa che all’epoca Marco Ferreri la voleva come attrice in un suo film. Ma la sua vocazione era l’arte, così nel 1980 esce il lavoro che ha cambiato il modo di pensare all’arte delle donne: una mostra sorprendente preceduta da ricerche, viaggi, incontri, scoperte: L’altra metà dell’arte. Ha raccontato a voce e per iscritto la storia del suo incontro a Parigi con Dora Maar, l’artista e fotografa, la compagna di Picasso, donna dimenticata e rimossa. Lei si arresta davanti alla sua porta: Dora non apre. “L’essenza dell’artista è l’imperfezione”, ha scritto, e rileggendo le sue frasi in Parole nell’arte 1965-2007, pubblicato da il Saggiatore alcuni anni fa, raccolta magnifica di articoli e visite ad artisti e artiste, non si può non pensare che parlasse prima di tutto di se stessa, lei che ai nostri occhi di amici e ammiratori sembrava invece sempre perfetta, impeccabile, elegante. Forse era proprio così che si sentiva, e un disagio trapelava dal suo eloquio, dai piccoli tic del parlato e dello scritto: “Ma scherziamo…, “Andiamo, sciocchezze…”; dal vezzo di confessare un’inquietudine, che diceva di tenere a bada con le pillole e gocce contro la tachicardia.
La migliore definizione che riesco a trovare, e so che forse non le piacerebbe, è di essere una scrittrice dell’anima, ovvero delle patologie, sue e degli artisti di cui s’è occupava, se è vero che dalle pagine dei suoi libri trapelano diversi stati d’animo, esaltazioni e depressioni, allegrie e tristezze, buon animo e malanimo, forme di ansietà e apprensione, che trovavano nella scrittura una forma brillante e compiuta, spesso a scapito dello stato che le aveva portate sulla carta. Negli ultimi anni aveva preso a telefonarmi per commentare cose scritte da me o da altri, per parlare di libri letti e persone incontrate. Perché da quando la malattia di Enzo era andata peggiorando e lo stato di mutismo, o di autismo, come lei diceva, era aumentato, il desiderio di parlare era forte, ma sempre con quella eleganza e sobrietà che le s’intonava perfettamente, come gli abiti che indossava.
Se c’è un sentimento che lei viveva in profondità – e non so neppure se si può dire un sentimento, dato che di sentimenti veri ce ne sono solo due: l’amore e l’odio, da cui discendono tutti gli altri, e lei li aveva di certo provati entrambi – è la malinconia: per il passato, per Napoli, per il mare di Capri, per sé stessa da giovane, e per molto altro ancora. In Parole sull’arte c’è una frase che mi è sempre suonata la miglior definizione di quello stato d’animo: “il tempo vissuto durante l’infanzia e la prima giovinezza in un luogo psicologico che forse non è mai esistito, in un fortissimo legame con qualcosa che fu una superfetazione del mio incauto Io”. L’incauto Io di Lea Vergine ci ha lasciati così all’improvviso, seguendo il suo Enzo un giorno dopo, e già provo la nostalgia per Lei, per la sua scontrosità così dolce e affettuosa, per la sua voce così tagliente e insieme avvolgente, pungente e punta.
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