Le dimissioni di Stefano Boeri da assessore alla cultura segnano un’effettiva battuta d’arresto. Ma qual è la questione in gioco? La disobbedienza di un assessore, cui il sindaco vuole ritirare la delega? Un eccesso di personalismo?
La mancata discussione nella collegialità di una giunta? Forse tutto questo, ma non solo. Il vero problema che pongono le dimissioni di Boeri è quello di un’assenza di discussione pubblica intorno ai problemi che riguardano la città in un settore importante. Per capire la crisi della giunta meneghina, bisogna partire dal fatto che nelle grandi città la cultura è un elemento decisivo attorno a cui ruota la vita di molti, l’economia, la fruizione del tempo, gli stessi spazi della città. Da quando tempo di lavoro e tempo libero hanno perso la loro identità, a causa delle nuove tecnologie, da quando l’intrattenimento è diventato un motore economico, la cultura si è trasformata in un elemento centrale della vita collettiva, e dunque politica. Dove posizionare un museo, quali mostre organizzare, come gestire gli spazi pubblici legati alla moda, al design, al cinema, al divertimento, sono tutte scelte legate alla vita pubblica. Lo spazio è politico; e la rappresentazione, come ci insegna Bruno Latour, è la premessa indispensabile della rappresentanza, ovvero della politica medesima.
Quando Stefano Boeri presenta il suo programma di assessore in dieci punti, decidendo di dare più spazio al contemporaneo nell’area dell’ex-Ansaldo, piuttosto che alle collezioni, per altro modeste, delle civiltà extraeuropee, compie un gesto eminentemente politico. Quello che propone è giusto oppure no? La sua visione della città come Hub culturale funziona, oppure no? Giuliano Pisapia avoca a sé, alla sua funzione di sindaco, questi aspetti. Ha diritto di farlo, perché ha ricevuto un mandato dalla città, ma per essere davvero il sindaco della primavera milanese dovrebbe proporre ai suoi cittadini i termini di una discussione che non può essere ristretta alla sola giunta. La novità di cui Pisapia è stato portatore sei mesi fa è proprio questa: la trasparenza, la discussione, i social network. Boeri ha parlato in modo perplesso del museo di arte contemporanea da costruire nell’area dell’ex-Fiera di Milano su progetto di Libeskind. Giusto? Sbagliato? Ma del grande progetto immobiliare di City Life, ancora in fieri, cosa ne è? E cosa ne sa davvero la città? E ancora, le decisioni prese dalla precedente amministrazione di Letizia Moratti per l’Expo, legano o no le mani all’attuale amministrazione? Il decalogo programmatico di Boeri riguarda tutto questo.
Il vero problema è che oggi le città non possono più essere amministrate con la visione del pater familias, come avveniva in passato. La democrazia partecipativa, i blog, i siti web, Facebook, Twitter, impongono che le scelte siano passate al vaglio di ampie discussioni, in rete e non solo lì. La novità della primavera è questa. Perciò il problema non è Pisapia piuttosto che Boeri, o viceversa, ma come e dove discutere delle prospettive della città fuori dalle stanze di Palazzo Marino. Piero Bassetti, padre nobile della città, l’ha detto molto bene: meglio questo conflitto aperto che le vecchie liturgie del potere della Prima Repubblica. Ma ora noi siamo entrati nella Terza, e questa non sopporta più che le scelte non siano condivise, disputate, a volte anche duramente, esposte in bella vista, anche se poi a decidere sarà uno solo, o pochi, coloro che la gente ha votato ed eletto, e che si devono prendere la responsabilità di scegliere. Questo è il nodo. Milano per prima oggi in Italia può indicare la soluzione possibile per usare in modo attivo quella che James Surowiecki ha definito “la saggezza della folla”, ovvero di tutti noi.