Il passero dalla corona bianca vola dall’Alaska fino al Messico in stato di veglia per un’intera settimana, batte ininterrottamente le ali sino a che non raggiunge la meta. Da tempo in una università americana studiano questo uccello per capire come possa fare a resistere così a lungo desto e in piena efficienza. Secondo Jonathan Crary, studioso che insegna teorie dell’arte alla Columbia University di New York, l’obiettivo di questo tipo di ricerche, finanziate dall’esercito USA, è quello di abbattere il periodo di sonno che gli esseri umani dedicano alla ricarica e ripresa di se stessi, in media sei ore per l’età adulta. Sarebbe questa l’ultima barriera che la biologia umana oppone alla realizzazione del 24/7, come s’intitola il suo libro (24/7, Einaudi 2015, pp. 134, € 18), ovvero, come già accade per siti, call center, e persino negozi in tutto il mondo: aperti 24 ore 7 giorni la settimana.
Crary scrive che il sonno è l’ultimo terreno di conquista che il capitalismo del XXI secolo ha davanti a sé avendo di fatto colonizzato ogni altra cosa. 24/7 è senza dubbio un libro che Umberto Eco avrebbe definito “apocalittico”. Scritto in maniera serrata, con una prosa tesa e a tratti apodittica, ci suona però la sveglia su un problema davvero incontrovertibile: è in corso l’abolizione della differenza tra tempo di lavoro e tempo di riposo, ma anche della distinzione tra vita privata e vita lavorativa. Lavoriamo sempre, in ogni momento del giorno e dell’anno, superando distinzioni un tempo invalicabili come ferie, domeniche, notti. Siamo aperti 24/7 salvo, appunto, quanto dormiamo. Già Hartmut Rosa in un recente saggio, Accelerazione e alienazione (Einaudi 2015) ha indicato nella “accelerazione tecnologica” portata dai computer una delle ragioni della trasformazione della nostra vita individuale e sociale, tanto che nell’epoca dalla globalizzazione e della u-topicità di Internet, scrive, “il tempo è sempre più percepito come qualcosa che comprime o addirittura annichilisce lo spazio”.
Non è necessario attendere il teletrasporto di Star Trek per essere presenti contemporaneamente qui e là, perché il personal computer, Internet, il Web.2, hanno annullato le distanze spaziali oltre che quelle temporali. Il sonno interrompe, sostiene Cray, “il furto di tempo” che avviene a nostre spese ogni giorno. Siamo entrati nell’era dell’immateriale, come aveva teorizzato all’inizio degli anni Ottanta François Lyotard in una memorabile mostra al Beaubourg. Oggi non conta più l’accumulazione degli oggetti, ma i servizi di cui i nostri corpi usufruiscono in maniera crescente insieme a immagini e procedure. Siamo dominati da “dispositivi”, come li ha chiamati Gilles Deleuze (Che cos’è un dispositivo?, Cronopio), di cui le app sono l’ultima forma.
Crary ricorda Solaris di Tarkovskij, tratto dal romanzo di Lem: un mondo spettrale perennemente illuminato giorno e notte, realtà artificiale ostile al riposo e al sonno. L’autore di questo piccolo e ficcante volume sostiene che l’esperienza del sonno è oggi l’immagine significativa della capacità di resistenza della vita sociale, in modo analogo ad altre situazioni marginali, che la società ha di sviluppare linee di protezione o di difesa. Riuscirà il turbocapitalismo tecnologico a colonizzare anche il momento in cui siamo davvero soli con noi stessi, non collegati grazie a smartphone, tablet, computer o altro al sistema mondiale della tecno-comunicazione? Arriveremo davvero al 24/7?
Già Marx aveva segnalato ne Il capitale l’incompatibilità del capitalismo con ogni sistema sociale stabile e durevole. La storia degli ultimi centocinquanta anni ha mostrato come viviamo in una condizione di “rivoluzione permanente” delle forme di produzione, circolazione, comunicazione e produzione delle immagini. In questo lasso di tempo, non breve, ma neppure lunghissimo, si sono alternati alcuni intervalli di stabilità, spesso solo apparente, segnati da sistemi di diffusione delle immagini che Crary, studioso di arte, scandisce in: cinema, televisione, personal computer. Le linee di forza di tutto questo sono determinate da due aspetti: il tentativo di imbrigliare e sottoporre a controllo il tempo e contemporaneamente l’esperienza degli esseri umani. Erving Goffman, studioso delle cosiddette “istituzioni totali”, ha spiegato in Asylum (Ombre corte) che queste funzionano abolendo la differenza tra vita privata e vita pubblica: si vive costantemente sotto gli occhi di un’autorità occhiuta senza possedere né spazi né luoghi per sottrarsi a questo controllo.
Lo stesso ha segnalato Primo Levi in Se questo è un uomo, indicando come la potenza annientatrice del Lager si fondasse sulla abolizione delle abitudini personali e sul sequestro di ogni oggetto o spazio personale. Crary ci mette in guardia sull’espansione delle tecnologie informatiche: “ogni tecnologia apparentemente nuova rappresenta anche una dilatazione qualitativa nell’adattamento di ciascuno alla dipendenza dal 24/7 e delle sue routine; costituisce un’occasione ulteriore nello sviluppo del processo per cui l’individuo viene trasformato in un’applicazione di nuovi sistemi di controllo e imprese”. La stessa moltiplicazione e pervasività delle immagini della cultura di massa attuale produrrebbe questo: “l’immersione 24/7 nel flusso dei contenuti visivi diventa di fatto una nuova forma di Super-Io istituzionalizzato”. Ha ragione o torto? Provi ciascuno a contare quante ore dedica ai social, alla comunicazione con il cellulare, alla visione con televisione e computer, dove e con che frequenza, e quanto peso abbia nella sua capacità di immaginazione del presente, e anche quanta energia nervosa consumi. Risultati imprevedibili.
Il libro
Jonathan Crary, 24/7, Einaudi 2015, pp. 134, € 18