In tempi recenti ha più volte reiterato il gesto del dito medio, la “spinta del medio”, come è chiamata, un gesto fallico, di erezione, vecchio di oltre duemila anni, noto ai Romani, i quali si riferivano, scrive lo zoologo Desmond Morris, al dito medio come dito imprudente ed osceno. Nel caso del Senatur si collega invece a una retorica leghista di tipo maschilista, di cui Bossi si è fatto più volte promotore: l’affermazione che i Padani “ce l’hanno duro”.
Uno studioso dei gesti, Claudio Franzoni, ha sottolineato come si tratti di gesti da bar: far ridere la compagnia dei maschi al Bar Sport. Il senso di queste posture è perfetto: il politico è uno di noi, è come noi. Non, dunque, un intellettuale, un professore, un professionista della politica, uno probabilmente migliore di noi, da ammirare, bensì proprio uno identico a noi, se non addirittura uno inferiore a noi. Segna un cambiamento epocale, cui non è estranea la televisione, come aveva segnalato già nel 1961 Umberto Eco nella Fenomenologia di Mike Buongiorno. Al termine di un lungo processo, ritenuto a torto di democratizzazione, lo sguardo ammirato di molti non si rivolge più a persone di notevole rilievo morale o intellettuale, bensì a uomini e donne modesti, anonimi, assolutamente identici all’uomo della strada o alla donna della porta accanto: il Grande Fratello. Bossi e la Lega hanno avuto un ruolo importante nella direzione del cambiamento della visione sociale e culturale della vita politica, e così vanno letti anche i gesti compiuti dal leader leghista nei luoghi pubblici, davanti alle macchine fotografiche e alle telecamere.
Il suo caso è davvero emblematico. Se infatti, come scrive Elias Canetti in Massa e potere, il problema dell’uomo politico è quello di creare una distanza dall’uomo comune, e al tempo stesso di colmare l’inevitabile distanza che si genera, il caso di Umberto Bossi è quello di un leader che tende piuttosto a ridurre, quasi annullare, la distanza. E allo stesso tempo è indubbio che intorno alla sua figura, al suo corpo di Capo, si è generato un carisma. Su cosa si fonda questo carisma? Per capire da cosa derivi, non è a un leader politico che bisogna paragonarlo, per quanto un parallelo con un altro capo assolutamente popolare, istintivo e istrionico come il leader leghista, lo si potrebbe stabilire: Benito Mussolini.
Il senso carismatico del leader leghista richiama piuttosto quello di un artista del XX secolo, Andy Warhol, come lui personaggio in apparenza timido, incolore, non particolarmente bello, uscito da una realtà periferica, la colonia degli immigrati cecoslovacchi di Pittsburg. Bossi emerge dalla piccola, piccolissima borghesia, con ascendenze contadine, della provincia di Varese, da ambienti marginali sia socialmente sia culturalmente. E come nel caso di Warhol è esattamente l’eccentricità rispetto ai modelli dominanti a creare il personaggio di Bossi, la sua valenza di maschera, come ha scritto Lynda Dematteo nel recente volume L’idiota in politica (Feltrinelli). Sia per l’artista americano sia per il politico lombardo vale un elemento fondamentale: il travestimento. La maschera è appunto un vestimento, in cui, come dice il proverbio: “l’abito fa il monaco”. Nel corso dei vari decenni della sua carriera, dagli anni Cinquanta agli anni Ottanta, Andy Warhol ha perseguito un costante mutamento nel proprio aspetto esteriore che lo assegna a una forma clownesca di mascheramento di sé, ma anche di produzione continua di segni, utilizzando per questo abiti e altri accessori, come gli occhiali neri, sino ad arrivare alla celebre parrucca argentata che da un certo momento non ha più smesso di indossare. Lo scopo di Warhol era quello di creare una sorta di anti-omologazione, di allontanamento dallo stile e dal costume di volta in volta dominante, facendo di se stesso un’icona.
Quale abito indossa Umberto Bossi? Quello dell’everyman, dell’uomo qualsiasi, o qualunque. Un abito che funziona perché è un costume indossato da tutti, comune, collettivo. Con un aggettivo possiamo dire: popolare. All’inizio della sua predicazione leghista Bossi indossava un impermeabile che ricordava quello del Tenente Colombo, il protagonista dei telefilm televisivi, ma è la canottiera quella che lo identifica maggiormente, e ne costituisce un tratto distintivo ai nostri occhi. Probabilmente più che un segno, in senso classico, la canotta vale come un gesto vero e proprio che compare in un momento preciso della vita politica del leader leghista. Nel 1994 il capo della Lega si reca in vacanza in Sardegna; sta per rompere l’alleanza con Silvio Berlusconi e si fa fotografare in canottiera; con questo abbigliamento rilascia dichiarazioni alla stampa e posa davanti alle telecamere televisive. La canottiera appartiene ai capi cosiddetti di “intimo”, posti sotto la camicia, a diretto contatto con la pelle. Il suo nome deriva dall’attività del canottaggio; è la divisa dei rematori, ma anche l’indumento indossato nel basket e nell’atletica leggera insieme ai calzoncini corti.
In questa veste Bossi si mostra in un luogo di vacanza dove i vestiti sono “informali” e in cui prevale la tenuta “sportiva”. La canottiera di Bossi intesa come indumento sportivo si contrappone alla tuta da ginnastica, da footing, portata in varie occasioni da Silvio Berlusconi. Il messaggio politico che il gesto di Bossi comunica al pubblico dei telespettatori è: io sono parte del popolo, e la Lega è un movimento popolare. Seduto sulla spiaggia di Porto Cervo, luogo frequentato dai vip, il Senatur, in procinto di interrompere la collaborazione governativa con il miliardario Silvio Berlusconi, si mostra in pantaloncini corti, canottiera e una grossa catena d’oro al collo con annesso crocefisso. È l’eroe popolare, sincero e insieme burino, povero e nel medesimo tempo cafone, tuttavia sempre autentico.
La canottiera è presente nell’iconografia popolare italiana, mille volte presente negli scatti dei fotografi: canotta da muratore, prima di tutto, e poi da operaio. È ritratta in tanti film e fotografie a partire dagli anni Venti e Trenta: Massimo Girotti nel film di Luchino Visconti, Ossessione (1943), dove interpreta il personaggio di Gino Costa, la indossa per gran parte del film; un uomo del popolo e insieme vagabondo e amante focoso; così in La terra trema del 1948, dove recitano i contadini siciliani; e poi Renato Salvadori in Rocco e i suoi fratelli del 1960. Sono tutti film di Visconti, non a caso militante del Partito comunista: mostrare il Popolo.
Ma c’è un modello ancora precedente in cui la canottiera diventa un elemento simbolico assai efficace: il Duce. Benito Mussolini passa nel corso degli anni, dalla conquista del potere, nel 1922, in camicia nera, da ardito, dall’abito ufficiale, da cerimonia, con tanto di tuba – “niente tubi di stufa sulla testa”, si dirà in seguito tra i fascisti rifiutando questo simbolo borghese –, fino al torso nudo della “Battaglia del grano” nel 1938, ritratta in fotografia e sulla copertina del popolare “La Domenica del Corriere”. Un chiaro messaggio propagandistico, in cui il Duce si mostra sull’aia a trebbiare indossando gli occhiali protettivi e in calzoni bianchi e cappello, una coppola bianca, da padrone, che si distingue nettamente dai cappelli di paglia delle contadine e dei contadini. Un doppio messaggio: l’andata verso il popolo – l’essere popolare – e anche la differenza dal popolo – Mussolini è pur sempre il Duce. Un esempio di quello schema di rapporto tra potenti e popolo di cui scrive Canetti in Massa e potere: vicinanza e insieme distanza. Uno schema che non sembra valere per Bossi.
Bossi non è però il primo leader politico italiano che si mostra in canottiera dopo la caduta del Fascismo. L’ha anticipato con il suo stile informale Bettino Craxi. Sono famose le sue camicie aperte, le giacche sportive di camoscio, l’ostentata assenza della cravatta, e poi le foto a torso nudo e in pareo sulla spiaggia di Hammamet, che richiamano le immagini di Mussolini; ma mentre il Duce si mostrava seminudo nel lavoro dei campi, Craxi si fa fotografare nel nuovo lavoro dei tempi postmoderni: la vacanza. Il leader socialista ha praticato una politica del corpo che si distingue da quella dei suoi predecessori, sia rispetto ai concorrenti politici, democristiani e comunisti, sia riguardo i socialisti stessi. Salvo il basco di Nenni e le foto di Pertini durante gli anni della sua permanenza in Francia, dove aveva fatto il manovale, nessun politico italiano del secondo dopoguerra aveva adottato abiti simili, che lo avvicinavano più alla gente comune che non ai chierici della politica, da De Gasperi a Moro, da Togliatti a Berlinguer. Ed è stato proprio Craxi a far entrare nella iconografia politica, la canotta, per quanto anticipato da due politici democristiani, Remo Gaspari e Ciriaco De Mita, entrambi immortalati in canotta al loro paese (l’aspetto paesano meridionale, poi presente in Antonio Di Pietro).
Il sudore di Bettino Craxi, segretario socialista, nella sauna della sala del congresso di Bari, nel giugno 1991, fa trasparire involontariamente sotto la camicia la canottiera; lo evidenzia, oltre alle immagini, anche un articolo di Giampaolo Pansa, che segna una sorta di degradazione simbolica del corpo del leader socialista, un suo abbassamento. Sono solo tre anni prima che Bossi si mostri in intimo sulla spiaggia della Sardegna. E dopo poco tempo vediamo sulle pagine dei rotocalchi l’immagine del leader socialista ad Hammamet, fuggito dall’Italia in seguito all’inchiesta di Mani pulite. La foto lo fissa in canottiera, mentre dipinge vasi nel suo esilio nordafricano; Craxi indossa scarpe da tennis tagliate per far spazio ai piedi gonfi per il diabete che poi lo porterà di lì a poco alla morte.
L’ultima canottiera di Bossi arriva sette anni dopo l’ictus che l’ha colpito. Durante questa estate del 2011, il leader leghista la indossa in diverse occasioni pubbliche, e i giornali interpretano il gesto come un ritorno al passato. È la canottiera bianca sfoggiata in una festa leghista nel cremonese, insieme al sigaro toscano; e poi la canotta grigia, marca Cagi, sulla spiaggia di Alassio. Siamo tornati al 1994, alla spiaggia sarda?
Il leader che si mostra in questo indumento intimo non ha più la forza simbolica della prima volta: appare nelle fotografie invecchiato, più simile a un pensionato che non al brillante provocatore politico degli ultimi vent’anni. Certo, allude ancora all’elemento popolare, com’è evidente dagli scatti che lo fissano sulla spiaggia ligure, attorniato da persone che vogliono farsi ritrarre insieme a lui, o accanto a giovani ragazze e militanti leghisti in t-shirt nel cremonese (la t-shirt è la versione rinnovata della canotta di Marlon Brando). Ma il gesto non è più quello di un tempo. La malattia l’ha reso legnoso, l’ha indurito. L’aspetto di maschera, che è sempre stato presente nella sua espressione e nella gestualità, si è fissato nella smorfia che l’ictus impietosamente ha impresso nel suo viso. Nelle foto in canottiera l’aspetto di santità, quel carisma che ancora conserva nei discorsi dal palco, si stempera e quasi scompare. O meglio: diventa il segno di una vistosa decadenza fisica, che finisce per sublimarne la figura, la santifica, almeno in parte, ma soprattutto la sposta fuori dal campo simbolico della politica in senso stretto.
Ora la canottiera non è più un gesto provocatorio. Torna a essere un indumento intimo che nel galateo piccolo borghese (il popolo che si vergogna di essere “popolo”) doveva restare nascosto sotto i vestiti. Tutta la forza della canotta, come dimostra Marlon Brando, e Fabrizio Corona, sua copia degradata, si fonda su un mito ulteriore, quello della giovinezza. La giovinezza come energia, forza, e anche bellezza. Una bellezza che non segue i canoni estetici fissati dallo star system, ma si fonda sull’invincibile energia che scaturisce dall’esibizione parziale del corpo maschile sotto le spalline della canotta. Ora questa giovinezza è svanita dal corpo del fondatore della Lega, e con lei anche gran parte del potere carismatico. Resta nell’evocazione dell’intimo l’icona come memoria del passato. Dopo la canottiera per la figura carismatica di Bossi si apre la possibile strada della beatificazione, e forse della santificazione. Ma questa è già un’altra vicenda. Postmortem.